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Omofobia: le radici sociali | Psicologia LGBTQI+ e QUEER

Omofobia: le radici sociali | Psicologia LGBT | Roberta Calvi Psicologa e Sessuologa

Omofobia: le radici sociali | Psicologia LGBTQI+ e QUEER

LE RADICI SOCIALI DELL’OMOFOBIA

Riflessioni epistemologiche su eterosessismo e discriminazione omofoba

L’omofobia è l’atteggiamento di ostilità nei confronti di uomini e donne omosessuali. Che può essere espresso attraverso critiche, disprezzo e finanche violenza verbale o fisica.

Ma l’omofobia non è solo nel disprezzo degli oppositori palesi dell’omosessualità. Si insinua nei discorsi, nelle idee, nei pensieri di tutti i rami della società, perché ne è il frutto.

Omofobia è l’opposizione ai diritti civili degli omosessuali, ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, all’omogenitorialità. E se scaviamo a fondo, omofobia è anche identificare una persona come omosessuale. Tratteggiando l’identità del singolo sulla base dell’orientamento sessuale.

Cos’è in fondo un omosessuale, se non un non-eterosessuale? Ecco come già l’omosessualità si definisce come una negazione, come un’opposizione ad una sessualità considerata “normale”.

Non si può dunque parlare di omofobia senza partire dall’analizzare l’ideologia eterosessista.

Omofobia: le radici sociali | Psicologia LGBT

“L’eterosessismo – come definito da Herek (G.M. Herek, Heterosexism and homophobia, in Cabay RP, Stein TS – Textbook of homosexuality and mental health, American psychiatric Press Washington, 1996) – è il sistema ideologico che rifiuta, denigra e stigmatizza ogni forma di comportamento, identità, relazione o comunità di tipo non eterosessuale. Esso si manifesta sia a livello individuale che a livello culturale, pervadendo i costumi e le istituzioni sociali”.

L’omofobia dunque assume due forme, che si intrecciano e alimentano a vicenda. La componente affettiva e psicologica di matrice irrazionale. Che nasconde la paura nei confronti dell’altro che mina la coesione e la rassicurante normatività della società. E che si esprime attraverso un’aperta ostilità e condanna di gay e lesbiche. E la componente sociale, che, stabilita la norma e la deviazione dalla stessa, a seconda delle epoche e dei contesti geografici può condannare o tollerare gli omosessuali. Ma sempre all’interno di una logica assoluta e assolutistica stabilita a priori di ciò che è normale e ciò che non lo è, di chi è il diverso di chi.

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L’eterosessismo sottolinea dunque l’aspetto sociale dell’omofobia. E come tale si delinea, si esplicita, si inserisce nei media, nelle istituzioni, nella religione, nella legge, nelle consuetudini.

Film, libri, riviste, pubblicità ci istruiscono. O meglio indottrinano, sin dalla prima infanzia, su qual è la sessualità giusta, il rapporto amoroso “normale” (normativo), la famiglia “naturale”.

Ma non solo! Siamo bombardati dalla nascita da stereotipi di genere. Che definiscono a priori il modello uomo e il modello donna, con rigidi paletti invalicabili.

Basti pensare al fiocco rosa e fiocco azzurro per festeggiare una nascita. Simbolo dell’attribuzione di un’identità che non è solo anatomica, ma implica atteggiamenti, pensieri, comportamenti, emozioni concesse o negate.

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Ed è così che l’omofobia sociale genera e si fonde con l’omofobia affettiva e psicologica. Quest’ultima si configura allora più propriamente come paura rispetto alla propria inadeguatezza a rispondere al modello di riferimento di genere previsto dalla società. Di cui l’omosessuale rappresenta la negazione, l’opposto, l’eversione dell’ordine normativo.

Gli atteggiamenti omofobici servono a prendere le distanze da  questa figura, dalla possibilità di trovare in sé aspetti simili. In primo luogo il  desiderio omoerotico, o dal rischio di essere assimilato all’omosessuale, e dunque tradire un’identità. Che in realtà non è propria del singolo, unica e irripetibile, ma è un prodotto confezionato da una società-fabbrica che produce in serie, fabbrica che scarta (negando diritti e possibilità) qualunque pezzo “difettoso”.

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Secondo questa logica (perversa), come non considerare l’omosessualità come un’eresia, una follia, una pazzia proprio come hanno fatto gli psichiatri dell’800, tra cui  Richard von Krafft-Ebing, teorizzatore del nazismo e dell’omocausto?

E’ vero che l’APA e l’OMS hanno derubricato l’omosessualità dalle patologie psichiatriche e che la stessa è stata depenalizzata (anche se non in tutto il mondo). Ma lo scenario di fondo è rimasto lo stesso. Pensiamo alla nostra Italia: non c’è condanna, ma c’è inuguaglianza. Non c’è internamento, ma c’è marginalizzazione ed esclusione dai diritti. Non c’è accusa, ma c’è un profondo silenzio, un doppio silenzio. Silenzio delle istituzioni rispetto al concedere pari diritti e silenzio in cui si cerca di mantenere gli omosessuali. Perché non abbiano voce in capitolo in tema di matrimoni, figli, famiglia.

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Il silenzio, forse, è l’aspetto più pericoloso. In quanto fa sì che l’omosessualità risulti socialmente invisibile. E quindi più che essere vista come una caratteristica tra le altre dell’individuo, l’omosessualità diventa un simbolo di ciò che è estraneo alla comunità. Quindi opposta ad essa (e il passo a definirla in termini negativi è breve), qualcosa contro cui reagire, un pericolo.

Ma cosa mette in pericolo l’omosessualità? Cosa difende in fondo l’omofobia?  Se ci pensiamo si tratta di una vera lotta tra conservatori e progressisti, tra tutori e difensori della norma e rivoluzionari. E in questo senso sì, l’omosessualità è sovversiva. Perchè contrasta la normativa gerarchizzazione della sessualità che attribuisce una superiorità biologica e morale ai comportamenti eterosessuali.

Come nella rivoluzione francese del 1789 il popolo si ribellava alla dominazione monarchica, così gli omosessuali, per il solo fatto di esistere, si oppongono alla dominazione dell’ eterosessismo. L’eterosessismo presuppone una differenziazione di base tra i gruppi omo/etero e il privilegio sistematicamente accordato al secondo.

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Come afferma Daniel Borrillo: “l’eterosessismo sta all’omofobia come il sessismo alla misoginia (…) Dalla genesi alla psicoanalisi attraverso la letteratura romantica, la donna è stata pensata come un uomo mancato (bisognosa dunque dell’uomo per completarsi). Ugualmente l’omosessuale è la prova stessa di una personalità immatura. Prodotto da una cattiva integrazione della sua ‘natura’ maschile o femminile”. (Borrillo D., Omofobia. Storia e critica di un pregiudizio, 2006)

Il trattamento ineguale riservato agli omosessuali, l’assenza di pari diritti e opportunità viene giustificato attraverso un meccanismo di naturalizzazione di una dominazione. Che consiste nel legittimare le pratiche discriminatorie del gruppo dominante. Perché è presupposta una deficienza strutturale dei dominati.

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E’ ciò che avveniva meno di un secolo fa nella Germania nazista. In cui l’ebreo poteva essere perseguitato, deportato, ucciso perché non era di razza ariana.

Seguendo questo filo conduttore possiamo affermare che l’omofobia non è diversa dal razzismo, dall’antisemitismo, dalla xenofobia. Poiché non è che un’altra delle forme di inferiorizzazione.

Una risoluzione del Parlamento europeo del 2006 dedicata all’omofobia evidenzia questa analogia. Considerandola analoga al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo.

In questa risoluzione si legge che il Parlamento Europeo “condanna con forza ogni discriminazione fondata sull’orientamento sessuale; chiede agli Stati membri di assicurare che le persone GLBT vengano protette da discorsi omofobici intrisi d’odio e da atti di violenza omofobici e di garantire che i partner dello stesso sesso godano del rispetto, della dignità e della protezione riconosciuti al resto della società; invita con insistenza gli Stati membri e la Commissione a condannare con fermezza i discorsi omofobici carichi di odio o le istigazioni all’odio e alla violenza e a garantire l’effettivo rispetto della libertà di manifestazione, garantita da tutte le convenzioni in materia di diritti umani” (Risoluzione del Parlamento europeo sull’omofobia in Europa del 18 gennaio 2006).

Nel nostro Paese esistono delle norme penali a tutela della discriminazione per motivi razziali, etnici o religiosi. La legge 25 giugno 1993, n. 205, meglio nota come Legge Mancino, sanziona e condanna gesti, azioni e slogan aventi per scopo l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici religiosi o nazionali. Alla base di questa legge, suo motivo ispiratore, c’è il principio di uguaglianza e quello di dignità della persona, pilastri della Costituzione italiana. Eppure non compare la discriminazione causata dall’orientamento sessuale.

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L’orientamento sessuale, dopo un lungo dibattito, fu deliberatamente lasciato fuori dalla formulazione iniziale della legge suddetta, nonostante le proteste delle associazioni per i diritti LGBT.

Nel 2013 è stata proposta l’estensione della legge Mancino anche all’omofobia e alla transfobia. Il disegno di modifica di legge è stato approvato alla Camera e si è arenato in Senato. Il motivo addotto per non far approvare la legge è una presunta limitazione della libertà di pensiero. Certo è vero, ma solo in nome di un principio superiore che è quello dell’uguaglianza.

Qualunque parola di odio razzista o antisemita è oggi condannata pur limitando la libertà di espressione. Allora perché lo stesso non può valere anche per l’omofobia? E’ evidente che estendere i principi vigenti in materia di razzismo all’orientamento sessuale significa stabilire una pena per chi diffonde idee fondate sulla superiorità di un particolare orientamento sessuale rispetto ad un altro.  E nella nostra Italia, in cui le istituzioni politiche e religiose sono intrise di eterosessismo, equiparare omofobia  e razzismo forse non conviene a molti.

Ma chi non concorda con una piena equiparazione dell’omofobia rispetto al razzismo ha un grosso problema rispetto ad un concetto più generale. Che è quello di dare eguale valore a tutte le persone.

O forse bisogna ancora credere  che essere maschio, bianco, eterosessuale e cattolico conferisca automaticamente il diritto di sentirsi superiori?

Roberta Calvi Psicologa e Sessuologa

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